L’india è un paese complesso e se devo essere sincero, non l’ho capita molto. In quei pochi giorni che l’ho vissuta da dentro ho incontrato una serie di paradossi che me la hanno allontanata invece che il contrario.
Dico “da dentro” perché ho passato 16 giorni (che mi sono sembrati lunghissimi) nella comunità vera di Phanigiri, un villaggio a 4 ore di macchina dalla città più vicina, per lo più sullo sterrato. Praticamente nel nulla, campi in ogni direzione. Sicuramente bello, ma anche terribile per chi come noi è abituato al susseguirsi di piccoli paesi, uno dopo l’altro, anche nei luoghi più sperduti della nostra bella Italia.
Se sono partito è per fare il buon samaritano e riempire un’estate con qualcosa di bello e buono. Per quel miscuglio di altruismo e senso di colpa che ci caratterizza bene o male tutti. Mi aspettavo, una volta arrivato, di ambientarmi in un paio d’ore e poi fare “il dottore” tra la gente del terzo mondo. Mi sarei portato a casa mille bellissimi sorrisi di persone felici anche se maledettamente povere. Perché si sa che nella semplicità si sta meglio e poi perché io ero arrivato a salvarli.
Ma non è stato così. Forse lo è nelle cartoline, forse lo è negli spot per “vendere” adozioni a distanza. Lungi da me il pensiero di criticarli, anzi ne riconosco l’intelligenza di adattarsi ad un mondo sempre più veloce in cui per far del bene non si può ricorrere a scritti lunghi e tortuosi (un po’ come questo).
La verità, o quanto meno quella che mi è sembrato di cogliere, è che la mia presenza era tanto sensazionale più per il colore della mia pelle che per l’aiuto che potevo dare. La verità è che faceva un caldo tremendo e si soffocava anche la notte. La verità è che avevo paura dei serpenti o di prendere la tubercolosi. La verità è che volevo tornare a casa.
Ma cosa c’entra questo con MARPU? Di sicuro non è la migliore presentazione per una associazione di volontariato e promozione sociale.
Abbiamo deciso di presentarci così, perché MARPU nasce per generare “cambiamento”, che tra l’altro è il significato della parola stessa.
Certamente generare cambiamento in questo piccolo villaggio, in cui, per cominciare, vorremmo garantire ad ogni bambino la possibilità di andare a scuola. Anche a quei bambini con un solo genitore e 3 fratelli, anche a quelli che dovrebbero raccogliere il riso per poterlo mangiare la sera, anche quelli con più di 10 anni. Perché vorremmo vedere cambiare questo piccolo luogo sperduto grazie alle loro mani, grazie alla loro speranza che imparare, giocare e avere un’infanzia degna di questo nome possono regalargli.
Ma un cambiamento altrettanto importante vorremo che avvenisse in Noi. Perché dal racconto intimo di un villaggio grande quanto il quartiere o paese in cui siamo cresciuti possiamo imparare l’empatia e la fratellanza. Quella vera. Quella che nasce dall’incontro.
Perché Phanigiri è una donna con l’occhio nero e grosse lacrime silenziose, accompagnata dal marito all’ambulatorio perché triste, “difettosa”.
È Munni, una bambina di 1 anno senza genitori, gonfia e malnutrita che strilla a fil di voce.
È una ragazza di 21 anni con 3 figli e una lunga cicatrice dolente sulla pancia, frutto di un’asportazione d’utero abusiva, usata come metodo di contraccezione.
Ma anche perché Phanigiri è un cortile pieno di bambini che scherzano, giocano a ricorrersi e studiano all’ombra degli alberi.
È la nonna di Munni che prova disperatamente ad allattarla, anche se i suoi seni sono secchi da anni.
È una vecchia suora che insegna a ballare la “Disco” ad una classe di tredicenni.
È il bambino della maestra con l’asma che gioca in un angolo con la foca di peluche, è lo stupore del malato con la zazzera folta, è un fiume di ragazzi che ti dicono il loro nome, è il cibo piccante, il tramonto di fuoco, le strette di mano, le risate, e a dire il vero, anche quei bei sorrisi da cartolina.
Un volontario di Marpu